2) DELLE MOGLI DEI SIGNORI
Si è detto di come i figli della roccia vollero scegliere le proprie mogli tra le donne ‘gnoranti che abitavano le terre d’Abruzzo. In ogni dove esse non erano molto alte, ma erano prosperose di forme e di animo, e più di qualunque altra donna della terra sapevano cucinare. E di questo i figli delle rocce se ne avvidero, e troppe erano le donne che volevano, e molte erano attratte dalla possanza dei Signori. Ma, come legge divina vuole, alla fine furono le donne stesse a fregare i figli della roccia e questi, seppur dapprima contenti, dovettero affrontare la prova più ardua che Lu Patratern mise mai loro di fronte: il matrimonio.
Erano giorni di estate sulle colline, e il grande caldo menava sulla terra come martello sull’incudine, e molto era il lavoro. Nei campi il grano era secco e in ogni dove si trebbiava, e gli uomini si mbriacavano a vino, e le donne portavano loro da mangiare, e ognuna diceva al suo “Mo c’arvì a la cas t’accid!”.
In quei giorni Merigo era tra gli uomini, e aiutava loro a trebbiare, che da quelle parti si dice tuttora trescare, e dispensava consigli su come falciare e fare li manuppl. E con loro mangiava e beveva vino, ma non si indortava poiché era fatto di roccia e il suo fegato godeva di grazia divina. Tuttavia il caldo era forte e l’alcool lo accaldava e, giunto a sera, decise di spogliarsi nudo e aiettarsi in mezzo a un lago. Quivi una giovane donna stava lavando i panni con sapone e shtrovila, e vide quell’uomo nudo nell’acqua, e si accorse che era il suo Signore. Ma non distolse lo sguardo, a causa dei molti furbi pensieri che nella testa produceva.
Quindi anche Merigo la vide, e vide che era anche giovane e bella, e erto e potente gli si pose davanti.
Ed ella a lui: “Mio Signore, freghete che manico di rungetta avete!”
Ed egli, compiaciuto del complimento, la volle, e per tre giorni e tre notti la possedette in riva al lago, sott a la capann, arret a quella fratt.
Il terzo giorno egli si alzò e, credendo la donna stanca, si rivesti e andò via. Ma la donna era ben sveglia, ancora forte e ardente, e a gran voce gli disse: “A do caz ve! Mo ci sposeremo!”
Fu così che Merigo dovette sopportare le tribolazioni del matrimonio, poiché forte e furba era Ondorina, la Signora delle Colline. E in quei giorni molti cannelli furono rotti, e più volte la dura testa rocciosa vacillò, ma grande e focoso era comunque il loro amore, ed ebbero figli e figlie.
In quei giorni di estate nelle terre delle aquile vi era gran scompiglio, poiché molti pastori erano venuti dalle terre meridionali e reclamavano i pascoli sui quali ora dominava Ndonio. Ci fu allora un conflitto, ma questo è narrato in altre storie.
Al termine dell’estate tornò il sereno su quelle terre, e fu indetta una grande festa in cui furono uccise e mangiate molte pecore. Le greggi erano contente poiché i cani dal manto bianco badavano loro, e i pastori ne erano felici.
Molte furono le damigiane di vino che Ndonio fece venire dalle terre delle colline dominate da suo fratello, e molto ne continuò a venire, poiché risultava sempre essere insufficiente. Quelli furono i primi giorni in cui i pastori iniziarono a mbriacarsi, e le loro donne si incazzavano e menavano loro con duri tortori di quercia, e da qui nacque il termine “prendersi una tortorata”, che significa appunto mbriacarsi.
Le feste perdurarono per una settimana, fino a quando le nubi fecero ritorno da est e la neve cominciò ad ammantare le distese erbose e rocciose. Fu così che Ndonio decise di far ritorno sul suo trono posto in cima al Gran Sasso. Percorrendo la strada che saliva, egli la benedisse e non permise alla neve di posarsi, dimodoché la gente poteva portargli a magnare e a bere, e quando gliena teneva poteva riscendere a valle a farsi un bicchiere in qualche cantina.
Molte erano le donne che giornalmente si recavano da lui per portare pane, cacio, carne di pecora e vino, e molte erano giovani e belle, in quanto speravano di essere prese in moglie dal loro Signore. Ma egli non sapeva decidere, e tutte le volte che arrivava una fanciulla egli la ripassava ben bene, per valutare e scegliere.
Tuttavia mai lui scelse, fino a quando non venne una grande bufera che sembrava dover ricoprire anche la strada benedetta da Ndonio. In quel giorno giunse al suo trono Trisinella, ed ella era bella e con fianchi che parevano fatti di roccia. Ma Ndonio già ne aveva viste simili, ed ella non sembrava attrarla più di quelle già ripassate. Così egli ripassò anche Trisinella e la congedò. Ma questa, furba e astuta, disse al suo Signore: “Ma mo co sta bufera che ce sta da fora me volete aremannà a la casa?”.
“Sci!” fu la risposta di Ndonio, ma ella senza ascoltare rimase comunque, e il figlio della roccia ne fu turbato ma anche attratto, poiché una donna lo aveva contraddetto. E Trisinella, ancora furba, si mise in cucina e accese un fuoco. Qui fece con i ceppi degli spiedi, e a questi infilzò piccoli tocchetti di carne di pecora, e li cosse alla brace. E il suo Signore fu meravigliato e infatuato da queste cose, che chiamò arrosticini, e ne mangiò in abbondanza. Fu così che volle tenere con sé Trisinella, e per tre giorni e per tre notti la tormenta continuò, ed egli la possedette e mangiò arrosticini.
Fu quindi questa la moglie del Signore della Montagna, e con ella tribolò fin da subito, poiché mal sopportava la presenza di Gnocchettone dal bianco manto nella sua casa.
“Fa uscì so cane!” diceva sempre ella.
“No, quissu remane qui!” rispondeva lui, e molto litigavano.
Allora ella diceva “Allora me ne revado da mamma!”, ed egli rispondeva “Magari!”, ma ella non andava mai via, e il povero Gnocchettone iniziò a dormire fuori di casa, poiché il suo posto accanto al trono era stato occupato dalla donna. Ma anche Ndonio e Trisinella ebbero figli e figlie, e il loro matrimonio fu benedetto.
Nello stesso inverno in cui Ndonio prese Trisinella anche nella Marsica fu festeggiato un matrimonio. Qui forte regnava Cenzino, che era chiamato “Il cazzotto de Lu Patratern” per la sua grande impresa, e molte erano le genti che lo veneravano e lo amavano. Nell’estate di quell’anno tutta la piana del Fucino fu coltivata in patane, e le patane divennero grandi e belle, e come patane erano le figlie dei coltivatori di patane, e da esse giunse il termine “Ma che bella patana”.
Molte quindi erano le belle patane, e Cenzino non sapeva decidere quale scegliere per moglie, sicché, quando tutte le patane furono raccolte, decise di ritirarsi sulla cima più alta dei monti fratelli, che dopo il suo leggendario cazzottone divennero ancora più alti, e decise di pensare. Dalla cima del monte vedeva tutte le belle patane dei suoi sudditi, ma ancora non sapeva cosa fare. E soventi volte rimaneva solo, e si appartava a sfogare il grosso fuoco che lo avvampava.
Ma nulla decise il Gran Cazzotto, quindi volle risolvere la cosa come i veri uomini fanno. Egli si incamminò da solo, nei giorni in cui la neve tornava a farsi forte, e andò dal fratello Merigo per chiedere del vino. Ed egli molto vino ebbe, e lo riportò nella sua casa nel mezzo della piana.
Qui disse “Mo mi devo mbriacà seriamente, e vediamo che succede.” Ed egli bevve, e bevve e bevve, e ancora bevve. Per tre giorni e tre notti bevve, e finalmente l’ebrezza del vino vorticosamente lo travolse, la prima e ultima volta in cui un figlio della roccia riuscì a prendersi una mbriacatura, e quella fu poi tramandata come “il colossale torto”.
Fu così che Cenzino vagò mbriaco per le contrade della Marsica, fino a quando un giorno si risvegliò in una grotta, ed era ignudo. Forte la sua testa martellava e forte ancora il mondo girava. Fu mentre si alzava che la sua mano si posò su qualcosa di soffice e caldo, ed egli sperò nella sua mente che si trattasse di una donna da egli posseduta e che sarebbe diventata così sua moglie. Ma la sua mano continuava a toccare, e lunghi e ispidi peli passavano tra le sue dita. Ed ecco che finalmente si avvide del suo gesto: Cenzino era di fianco a un orso, e questo placido dormiva.
E Il Grande Cazzotto de Lu Patratern, disperato e con una mano sulla testa, uscì uatta uatta dalla grotta dicendo “Freeeeeeeeeeghete…”
Ma ecco che, uscito dalla grotta, scorse una giovane fanciulla intenta a raccogliere ceppi, e vide che era proprio una bella patana. Essa, quando vide l’uomo avvicinarsi, riconobbe il suo signore, e vide che era ignudo ma non molto possante, e ne rimase male. Ma ecco che in Cenzino, deciso a non farsi fuggire il momento, tornò il potere del Cazzotto, e subito potente si mostrò alla fanciulla che, compiaciuta e stupefatta, volentieri si concesse al suo Signore.
Solo tre ore la possedette, poiché ancora in lui vi erano gli effetti del colossale torto, ma comunque la prese per moglie, ed essa ne fu contenta. E, per qualche strana causa o artifizio divino, questa non fu una rompicoglioni, ma i due vissero felici, ed ebbero figli e figlie. Molta fu la progenie di Cenzino, ma la prima fu maledetta.
Nonostante i figli della roccia scelsero prima le loro mogli, le loro unioni furono celebrate e benedette assieme, ai piedi della montagna loro Madre, verso la fine dell’inverno. Qui convennero i tre popoli abruzzesi, e grande fu la festa. Furono accesi grandi fuochi e ci fu un banchetto enorme. Così i popoli delle colline portarono il vino e le carni di porcio che avevano conservato col peperone rosso macinato, e queste erano salsicce, sprisciate e belle e saportite ventricine. E giunse anche carne di pecora e montone dalle terre delle aquile, e con esse il formaggio. E furono fatti spezzatini, carni alla brace e col formaggio fu fatto il cacio e uovo, e si fecero polpette e ripieni per i pellashtri e l’agnello cacio e uovo. E giunsero anche le patate dalla Marsica, e queste furono cotte con le carni dello spezzatino, e furono anche messe sotto la coppa insieme alle coccitelle di capretti e agnelli, che con le loro frattaglie fu fatta la coratella. E mai festa più grande fu fatta ai piedi della montagna Madre, e la gente mangiò e si mbriacò, e furono felici dei signori d’Abruzzo poiché benedirono il proprio popolo, impedendo loro di soffrire la gotta.
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